Nel flusso

Massimo Conte

Viggiano, Laurenzana, Bedonia, Piccinisco, Roccasecca, Bagni di Lucca. Statuine in gesso, ninnoli, animali, organetti e arpe. Spazzacamini, lustrascarpe, figurinai, fiorai, modelli, accattoni. Parigi, Lione, Londra, Mosca, Buenos Aires, Rio de Janeiro. Ovviamente, New York.

Nel lungo periodo che va dalla fine del Settecento fino ai primi del Novecento bambine e bambini, ragazze e ragazzi italiani percorrono migliaia di chilometri seguendo le rotte delle migrazioni di lavoro italiane.

A volte in solitudine, altre volte sotto la guida di una persona adulta che ha stipulato con i loro genitori un qualche tipo di contratto. Questi minori stranieri non accompagnati ante litteram non occupano solo le strade, ma diventano oggetto di racconto giornalistico, di inchieste sociali, di indagini di polizia, di messaggi dagli ambasciatori al Governo italiano, di leggi e di provvedimenti, tanto in Italia quanto nei paesi di immigrazione.

Astrit, ragazzo albanese di 16 anni arrivato in Italia da minore e ritratto in un parco nei pressi della sua comunità di residenza

La mobilità umana è una storia di lungo periodo, attraversa le generazioni costruendo delle continuità laddove l’apparenza dei fenomeni sembra segnare delle discontinuità.

A volte, adottare lo sguardo profondo della storia ci aiuta a capire meglio il presente che abbiamo di fronte. Quali cose legano i piccoli schiavi dell’arpa italiani (erano chiamati così i piccoli suonatori ambulanti che attraversano le strade di Londra con le loro arpe al collo) alle ragazze e ai ragazzi che abbiamo incontrato nel nostro lavoro di ricerca e di inchiesta? Proviamo a vedere alcuni aspetti.

Innanzitutto, le ragazze e i ragazzi in migrazione si muovono sulle orme lasciate dalle persone adulte partite prima di loro. È una vecchia legge delle migrazioni: le prime persone a partire sono quelle con più risorse a disposizione, spesso risorse immateriali come l’intraprendenza o il coraggio di sfidare l’ignoto.

Aprire una pista per la prima volta è sempre una sfida dai costi, economici e personali, alti. Dopo il primo gruppo di esploratori ed esploratrici seguono altre persone, si costruisce un flusso, si definiscono percorsi e tappe, si costruiscono le opportunità di viaggio. In questo flusso, una volta che è strutturato, si inseriscono anche le giovani e i giovani, anche molto piccoli. Si mettono in cammino persone che, altrimenti, non riuscirebbero ad attraversare i confini, ad allargare il proprio viaggio ben oltre la mobilità di piccolo raggio delle economie domestiche in cui sono cresciute e cresciuti.

Entrare in un flusso migratorio già consolidato ha delle implicazioni, mette a disposizione delle opportunità, ma stabilisce anche dei vincoli. Per esempio, da Viggiano si finisce a Londra, come da Dures si finisce a Milano.

Le rotte migratorie segnano un preciso punto di partenza e un preciso punto di arrivo, mete diverse sono spesso frutto del caso o effetto di un evento imprevisto: un controllo di polizia, la perdita del proprio agente di viaggio, il bisogno di raccogliere i soldi necessari a proseguire.

Entrare in un flusso migratorio vuol dire che non si viaggia in solitudine, ma ci si affida a persone interessate che sanno come si fa, che conoscono le leggi e come aggirarle, che conoscono la localizzazione dei confini, che conoscono la lingua del paese di destinazione.

Ci si affida a persone interessate che diventano, a tutti gli effetti, ruoli chiave nel continuare a sollecitare e a strutturare il flusso migratorio. Possono essere parenti, amici, vicini di casa. A volte possono essere passatori, come i contrabbandieri che a Bardonecchia negli anni ’50 garantivano il passaggio dall’Italia verso la Francia. A volte possono essere truffatori, come Ciccio Ingaggiatore (un destino nel nome) raccontato da Pietro Germi ne Il cammino della speranza.

Entrare in un flusso migratorio vuol dire vivere tutte le contraddizioni del modello di sviluppo locale, trasformato anche per effetto delle migrazioni. A spingere molti dei giovani e delle giovani italiane in giro per il mondo nell’Ottocento erano la frammentazione della proprietà agricola nei paesi di montagna o di alta collina italiana, così come la trasformazione monetaria dell’economia locale che costringeva ad avere i soldi per pagare l’affitto delle terre e per comprare i beni non prodotti dall’autosufficienza alimentare.

Nell’Albania che abbiamo conosciuto in questi anni il crollo del sistema politico, sociale ed economico è stato un enorme fattore di spinta, ma le migrazioni sono continuate anche quando il sistema si è ricostituito. Ogni modello di sviluppo locale porta in sé le proprie contraddizioni, le proprie diseguaglianze, le proprie differenze tra chi ha le risorse per coglierne tutti i vantaggi e chi non li ha.

Quello che ci insegna la storia delle migrazioni è che le migrazioni rafforzano le diseguaglianze a livello locale, stabiliscono nuove gerarchie sociali sostenute dai soldi che arrivano dall’estero. Nuove diseguaglianze vuol dire nuova spinta a mettersi in viaggio per migliorare la propria vita e quella dei propri cari. Ecco, allora, che dall’Albania si continua a emigrare proprio in un momento storico in cui parti del suo territorio sono investite da flussi finanziari e da sviluppi imprenditoriali inediti.

Una casa in costruzione nella campagna di Elbasan, nel cuore dell'Albania, zona di provienienza di molti minori emigrati in Italia

Infine, quello che ci insegna uno sguardo di lunga durata è che le migrazioni nei contesti locali costruiscono una cultura, fatta di storie e di racconti centrati sulla fatica e sul dolore, ma, soprattutto, centrati sul successo che la fatica garantisce. I paesi degli emigrati all’estero si riconoscono dalle case, a più piani per accogliere le diverse generazioni, costruite con i soldi delle rimesse: è così in Carnia, è così in Lunigiana, è così nel Belice, ma è così anche in Romania, in Albania, in Cina. Le case sono il principale segno per dire che le fatiche della migrazione hanno avuto un senso.

Ce lo racconta anche Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli. Oggi alle case si aggiungono i telefonini, le macchine, ma anche le immagini dei social. Interi paesi e intere città raccontano di questa cultura della migrazione che costringe chi è in viaggio a mostrarsi sempre vincente e chi non è ancora partito a venire a patti con la smania di partire.

Un legame profondo con l’estero che è richiamato dai bar che a Ouled Yussef come a Fayoum si chiamano Bar Milano.

Alcuni tra le ragazze e i ragazzi vedono nei cambiamenti che le rimesse dall’estero hanno consentito ad altri i segni di una vita diversa da quella abitudinaria, povera di opportunità e di sfide, fatta di sacrifici che non generano un miglioramento e della sensazione di essere lontane e lontani da dove accadono le cose importanti.

Quello che lega i giovani e le giovani che oggi si mettono in viaggio con quelli che si sono messi in viaggio nei decenni e nei secoli passati va oltre la sociologia e oltre l’economia delle migrazioni. È il desiderio di essere artefici del proprio destino, costruttrici e costruttori della propria vita.

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